I bit non bastano, bisogna avere capito cosa sono

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L’articolo del Corriere “I bit non bastano, il sapere svanisce” mischia un po' superficialmente temi che invece dovrebbero rimanere ben distinti, per non peggiorare la confusione dei troppi Italiani che in tema d’informatica hanno ancora poche idee, ma ben confuse.

Vediamone insieme i punti più deboli:

Si inizia presentando un cortometraggio in cui “una tempesta elettromagnetica distrugge tutti gli archivi digitali del pianeta e un ragazzo rimane senza più memorie [cioè senza email, foto digitali e simili] della sua ragazza” come metafora del nostro rischio di “perdere, con la progressiva digitalizzazione della conoscenza, il passato”. Magari. Nella realtà una tempesta di quella portata avrebbe effetti paragonabili alla caduta di un asteroide gigantesco: tutte le comunicazioni mondiali interrotte, conti correnti azzerati, torri di controllo e apparecchiature negli ospedali in tilt, automobili ormai digitalizzate che non partono più o sbandano… Passerebbe un bel po' prima di poter rimpiangere la perdita di fotografie.

Perdere il passato perché l’abbiamo digitalizzato, invece, può accadere con molto meno di una tempesta elettromagnetica planetaria. Ma solo se rimaniamo ignoranti, incapaci di distinguere fra supporti fisici dei documenti (chiavette USB, DVD…) formati dei file e programmi software. Solo in questo caso continueranno a spaventarci cose come il fatto che “un libro di carta può durare centinaia d’anni, mentre il ciclo di vita di un supporto magnetico può arrivare al massimo a un secolo”. La confusione fra formati e hardware è evidente anche in quest’altro passo, che accosta due problemi completamente indipendenti fra loro:

“Quanti floppy disk rimangono a prendere polvere, da quando sono stati inventati i masterizzatori? E quante volte aprire un file creato con vecchie versioni di Photoshop o Office si rivela un’impresa improba”

Vabbeh che quasi le stesse cose le ha dette pure Umberto Eco, ma su questo pure lui ha sbagliato. La domanda sui floppy può aver senso per file di cui si ignorava l’esistenza. Ma chi oggi i suoi vecchi file ancora importanti li ha ancora solo dentro floppy disk è un pirla, non una vittima della digitalizzazione. Se li avesse copiati tutti su CD non appena ha avuto un masterizzatore, starebbe tranquillo, perché quello è solo un problema di supporti fisici. I bit di un floppy sono assolutamente identici a quelli di un DVD.

Mentre invece aprire un file creato con Photoshop o Office ieri può creare problemi non trascurabili anche oggi a chiunque non possa usare gli stessi software, perché quello è un problema di formati di file segreti. Idem per:

applicazioni, sistemi operativi e formati dei file diventano obsoleti velocemente, rendendo impossibile accedere a materiale multimediale anche solo di pochi anni precedente”

con l’ovvia aggiunta che il materiale multimediale non avremmo mai potuto metterlo su carta. Usando formati realmente aperti e spostando tutte le volte che è necessario i bit da supporti vecchi a supporti nuovi perderemo poco o niente, anche su scale di secoli. Passando da un falso problema all’altro:

“A mano a mano che la digitalizzazione dei testi avanza… cosa accadrà delle pagine rese illeggibili dagli errori di scansione?"

Risposta: perderemo (forse) solo quelle, anziché i testi interi. Tutto il resto diventerà finalmente molto più durevole della carta (nel senso che ho appena spiegato) e, almeno tecnicamente, accessibile da tutte le biblioteche del mondo. Mica come oggi, [chiedetelo a Primo Levi /it/2011/02/primo-levi-spiega-limportanza-e-lassenza-degli-ebook-nelle-biblioteche-pubbliche/ ].

Programmi di conservazione culturale come, tanto per limitarci a quelli citati nell’articolo (*), Digital Public Library of America, Europeana, HathiTrust Digital Library, sarebbero semplicemente impossibili senza digitalizzazione. In quale modo inevitabili (ma correggibili) errori di scansione potrebbero essere più gravi del non potere affatto conservare le stesse moli di documenti, inclusi i molti, lo ripeto, NON cartacei?

Certo, una tempesta elettromagnetica tale da cancellare tutti i bit del mondo sarebbe impotente contro la carta (nonchè molto meno probabile, come tutti sanno, di umidità e incendi, compresi quelli scatenabili proprio da cortocircuiti elettromagnetici). Ma che ce ne frega, considerando che, anche parlando solo di foto, soldi e spazio per farne copie cartacee in quantità sufficienti per tutti coloro a cui potrebbero servire non ne abbiamo di sicuro?

Fare N copie digitali, tutte perfette e pienamente utilizzabili per secoli copiandole su nuovi supporti quando serve, è l’unico modo per passare a ognuno dei nostri figli e nipoti copie complete di archivi foto, video o di altro tipo. Tanto lo decideranno loro cosa vogliono buttare e cosa no. Mettiamoci il cuore in pace. Noi dobbiamo solo dargliene la possibilità.

L’articolo termina saltando di pali in frasche:

  • “su 516 studi scientifici pubblicati fra il 1991 e il 2011 dopo vent’anni, per l'80% di essi i dati originali di ricerca non [erano]] più reperibili”, che è un problema di Open Access, indipendente da tempeste elettromagnetiche e obsolescenza software o hardware

  • “/immagazzinare informazioni multimediali nel Dna [in volumi] al momento inimmaginabili. Oppure, Dna a parte, se il digitale non convince proprio si potrebbe pensare di tornare alla carta. Se non altro come ultima ratio”: a parte il fatto che i file in formati sconosciuti non diventano certo leggibili scrivendoli sul DNA, come lo scrivo un documentario su carta?

(*) ovviamente tutti senza link, perché il Corriere…

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