Quel che manca quando si parla dei costi della politica
Far costare di meno “la politica” è uno dei temi più grossi di questo periodo: è trasversale, facile da capire e odiosissimo per chi non arriva a fine mese. È anche un tema profondamente intrecciato, qualunque opinione si abbia, con tanti problemi critici dell’Italia di oggi. È naturale che se ne parli tanto, sarebbe strano il contrario. Ma perchè di certi aspetti del problema, e di certi strumenti per risolverlo, si parla così poco?
Il discorso sui rimborsi elettorali, soprattutto questa settimana, è un esempio perfetto di quel che voglio dire. Grillo dice #BersaniFirmaQui per rinunciare ai rimborsi elettorali come farà il Movimento 5 Stella. Renzi approva, più o meno, sapendo meglio di noi che, se il PD rinunciasse davvero a quei soldi, la sua forma attuale sparirebbe all’istante. Il PDL? Potrebbe rinunciare anche lui. Lega, non pervenuta, almeno a me. E in tutto questo, mi pare, in questi giorni nessuno o quasi pensa all’altra metà della questione. Perché?
Comunque sia fatto, chiamato o gestito, è inevitabile che un partito politico e nazionale qualche spesa ce l’abbia. Però è anche innegabile che un’organizzazione del genere può (deve!) avere effetti enormi, per tutti, sul Paese in cui opera. Ma allora perchè stanno parlando tutti di regolare per legge solo chi può o deve metterci i soldi, e non anche di controlli obbligatori su come verranno spesi?
Secondo me, che qualsiasi partito politico usi i finanziamenti ricevuti per speculare in Tanzania o altre spese, diciamo così per pietà, non essenziali, è sbagliato qualunque sia la fonte di quei soldi. Se parliamo di partiti politici, è sbagliato controllare solo come i soldi arrivano.
Certo i controlli delle spese vanno fatti nel modo giusto. Accontentarsi dell’oracolo, cioè di far revisionare i bilanci a porte chiuse da pochi veri esperti? Scherziamo? Pure il Monte Paschi aveva dei revisori indipendenti, e guardate che ha combinato.
Dei partiti politici devono essere realmente trasparenti sia gli incassi, sia le spese. Il modo giusto di garantire questa trasparenza è quello che a livello internazionale viene chiamato Open Data: pubblicare tutto online, in formati e con licenze tali che chiunque ne abbia la capacità possa controllare se tutto è in regola e raccontare a tutti cosa ha trovato.
Il PD sa benissimo come si dovrebbe fare, tant’è che l’ha già fatto… ma anche no. Perché il suo bilancio 2011, che è effettivamente disponibile come Open Data è sì scaricabile con licenza e formati giusti, ma è solo (vedi schermata) il riassunto del riassunto del riassunto. Quindi, oltre a capire perché Bersani non può raccogliere la sfida di Grillo ci fai poco o niente.
Prendiamo, per esempio, la spesa per “Servizi afferenti alla Sede nazionale”: 1736901 e rotti Euro nel 2011: che accidenti significa? È accettabile o no? Ovviamente, dipende. Se, per assurdo, in quei quasi due milioni di Euro ci fossero anche happy hour e musica dal vivo tutte le sere, forse non sarebbe accettabile, o come minimo i potenziali elettori dovrebbero saperlo, non trovate? Ma come saperlo, senza Open Data veri, cioè completi?
Ricapitolando, il PD sa come fare, e questa è un’ottima cosa, ma ancora non l’ha fatto davvero. Il Movimento 5 Stelle ancora non ha parlato per niente, o quasi, di Open Data. Gli altri, per quanto ne so (sarei felice di sbagliarmi, è ovvio!), li ignorano completamente.
Ma tutti parlano di come finanziare o no i partiti, in modi che li lascerebbero sostanzialmente liberi di non rendere davvero conto ai cittadini di come spendono.
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