A Varese Ligure il mondo ha nuovamente un ordine. Ed è verde

A Varese Ligure il mondo ha nuovamente un ordine. ed è verde

Questa è la traduzione italiana, scritta da Francesca Michelini, di un articolo del giornalista tedesco Andreas Weber. Viene pubblicata qui, ovviamente con il loro permesso, perché quanto scrive Andreas coincide con altri temi trattati su questo sito, vedi ad esempio “Scappare dalla città fa sempre bene?" e “È facile o no scappare dalla città per vivere in campagna?". La traduzione è in tre parti (i link alle altre due sono in fondo) sia perchè, per diverse ragioni, su Stop cerco fortemente di evitare pagine troppo lunghe, sia perchè le parti in cui io ho deciso di suddividerla mi sembrano centrate su temi diversi, sui cui può essere utile fare discussioni separate. Buona lettura!

QL’articolo è diviso in tre parti (i link alle altre due sono in fondo) sia perchè, per diverse ragioni, su Stop cerco fortemente di evitare pagine troppo lunghe, sia perchè le parti in cui io ho deciso di suddividere l’articolo mi sembrano centrate su temi diversi, sui cui può essere utile fare discussioni separate. Buona lettura!

LA MIA PROVINCIA, di Andreas Weber (traduzione: Francesca Michelini)

A Varese Ligure il mondo ha nuovamente un ordine. La cittadina italiana si è riconvertita ad un’economia verde. Andreas Weber vi si è trasferito.

La scorsa notte le montagne liguri sono diventate la mia casa. Come sempre più spesso in questi mesi, sono uscito di casa per camminare nei carruggi stretti, deserti nella luce dei lampioni. Ho seguito la strada del cane verso i prati. Ho salito i gradini tra la chiesa e il negozio di telecommunicazioni di Luciano, sono passato accanto alle pietre non intonacate della vecchia casa del prete, accanto alle tubature arrugginite di fronte all’officina del fabbro, accanto a Chica, la cagnetta tutta arruffata e zoppa, che dorme in strada. Sono salito sino al cimitero. Nelle nicchie dei muri brillavano i lumini, la notte taceva al cospetto di una luna tonda.

Fin quassù ero salito dopo il mio arrivo all’inizio di marzo, camminando faticosamente nelle tracce lasciate dall’auto, quando venti centimetri di neve avevano ricoperto la cittadina ligure e i lampioni della strada avevano iniziato ad ondeggiare, ma senza che alla fine arrivasse una bufera. Solo e in silenzio ero rimasto di fronte a queste montagne cupe, cercando di non sentire nostalgia di casa, di Berlino. Da qui avevo osservato costantemente, al di là della catena degli Appennini, lo scorrere del Vara nel suo letto.

La scorsa notte il vuoto degli ultimi mesi si è infine colmato. Le catene montuose stavano l’una dietro l’altra nella luce della luna, sciolte in un velo di un limpido blu. Un usignolo cantava giù al fiume, un altro gli rispondeva poco dopo. La valle fino ai monti di Carrodano, al di là dei quali inizia la riviera, si era riempita del loro suono. Mi immaginavo che la terra, in questa notte, fosse percepita dal Tutto come un tappeto di suoni. E che io potessi andare avanti, di usignolo in usignolo, sino a raggiungere il mar Mediterraneo.

Appena un anno fa non mi sarei mai sognato di poter diventare – seppure per un periodo – un cittadino di Varese Ligure. Non mi sarebbe proprio venuto in mente di poter andare a prendere pezzi di legno di ciliegio per il mia stufa di ghisa da Mauro, il postino che fischietta di continuo arie di Mozart. Non avrei mai pensato di poter essere circondato, mentre scrivo, dalle chiacchiere e dalle risate delle donne che si ritrovano nel negozio di lana proprio sotto al pavimento di legno, poco spesso, della mia sala. E ancora, un altro regalo inaspettato: la carne, che compro una volta alla settimana, proviene da manzi allevati biologicamente, manzi che ingrassano su prati fioriti.

Ma neppure avrei pensato di fare la conoscenza dell’insegnante e della bidella della Scuola Media. È lì che ho mandato a scuola mio figlio, che del resto è anche il responsabile del nostro trasloco. Ne è stato l’artefice, durante il nostro più recente, e il suo primo viaggio, in Italia. Procedevamo in auto a passo d’uomo in un vicolo del paesino rivierasco di Bonassola, bloccati dalla gente a piedi che chiacchierava, quando d’improvviso mi chiese: “Papà, perché camminano in mezzo alla strada?” Hanno la precedenza? “No”. “Ma allora perché lo fanno?” “Lo fanno e basta”. “Papà?” “Si?” “Voglio vivere in Italia”.

Ci siamo affezionati all’idea. Prima per scherzo, poi forse per ambizione. Poi una cosa ha tirato l’altra. La rettrice della scuola di Berlino ha concesso generosamente al mio bimbo di dieci anni di non andare a scuola per sei mesi. La vice-preside della nuova scuola mi ha messo tra le mani il modulo di iscrizione senza neppure chiedermi se mio figlio sapesse almeno una parola di italiano (e ne sapeva di fatto solo una).

E d’improvviso la mia casa era là, attraverso un passaparola e con l’aiuto di un’amica: modesta ma asciutta, una specie di casa a schiera, stretta, alta, incastrata in via Cristoforo Colombo, in mezzo all’ignoto, in mezzo alla vita. La notte alle tre ero lì, con l’auto e il portabagagli pieno di cartoni del trasloco, nel carruggio, nello stretto centro storico in stile genovese, assaporando fino in fondo il fumo dei camini, che conserverò sempre nella memoria come un saluto di benvenuto. Poi mi misi a cercare il cane che era in caccia di un gatto nascostosi sotto una Fiat parcheggiata stretta contro il muro.