Rivoluzione a Barcellona? Sì, ma col titolo sbagliato
anzi, con un titolo che per tanti diventerà una scusa.
Il titolo sbagliato è quelli dell’articolo “Si scrive rete, si legge cambiamento: la rivoluzione tecnologica di Barcellona”.
Tutto bello e tutto vero… tranne il titolo
Rispetto alla stragrande maggioranza dell’Italia, una rivoluzione a Barcellona c’è, eccome. Ma è tutto tranne che tecnologica.
Chiamare tecnologica quella rivoluzione sarebbe come chiamare rivoluzione “carriolosa” un piano di edilizia popolare costruito su competenza e interessi reali di tutte le parti in causa è, solo perché i muratori che costruiranno quelle case useranno (anche) delle carriole.
Tecnologica un accidente
Rileggetevi bene quell’articolo. Una delle prime cose che c’è scritta è la critica del “partire dalla tecnologia”, soprattutto quando è usata per supportare esternalizzazioni dei servizi, e dell’idea generale di vendere la tecnologia come “facile soluzione a qualsiasi tipo di problemi”.
Subito dopo c’è scritto che la tecnologia va allineata alla politica, e alle sue priorità. E tutto il resto dell’articolo non fa che raccontare l’applicazione concreta di tecnologie che, con la possibile eccezione di alcune parti dei progetti Decode e CityOS, non sono certo innovative, o brevettabili se è per questo, ma esistono da almeno dieci anni. E spesso costano pure meno di altre, quasi mai di più.
Ma tutto questo viene raccontato spiegando molto chiaramente, se soltanto si legge con attenzione, che la vera rivoluzione è l’applicazione integrata di concetti niente affatto tecnologici che girano da parecchi decenni, tipo:
- trasformazione della contrattazione pubblica
- ridefinire un nuovo patto sociale
- economia più sostenibile e circolare
- ripensare il settore pubblico con una nuova politica
- rapporto fra diritti e ridistribuzione della ricchezza
La rivoluzione che c’è a Barcellona, e pure in qualche città italiana, è politica. Che sia giusta o sbagliata è irrilevante, ma questo va capito. Tecnologica un accidente.
La rivoluzione è che lì ci sono amministratori con una visione politica completa e ben chiara di come una città deve funzionare, di chi e come deve servire, di come non deve danneggiare sè stessa e il resto della società. Amministratori che la volontà di provare a realizzare quella visione politica ce l’hanno. Poi, certo, è ovvio che una rivoluzione del genere non si può fare senza impiegare tecnologia digitale. O che, per riuscirci mettendo persone davvero competenti come Bria nei posti giusti, chi sta sopra deve avere quel minimo (ma basta quello, sul serio) di competenza tecnologica per capire la differenza fra sorgenti del software e sorgenti termali.
Ma rivoluzione tecnologica un accidente. Certo che è basata sull’impiego della tecnologia, ma chiamarla così ha l’effetto pratico, in molti casi, di fare da scusa a chi le cose non le vuole cambiare: “Signora mia, sarebbe bello fare come a Barcellona, ma noi non siamo mica così avanzati, tecnicamente”.
Sullo stesso tema, già che ci siamo: servono ancora, nelle Pubbliche Amministrazioni,
Inevitabile autopromozione
Oltre a quelli descritti nell’articolo, a Barcellona sono in corso tanti altri progetti dello stesso tipo. Ad alcuni di quei progetti partecipano anche i miei “colleghi” locali del Free Knowledge Institute (FKI), del cui Board faccio parte. Se volete sapere quali sono, date un’occhiata alle versioni italiana o inglese del sito di FKI. Se volete portarne qualcuno anche in Italia, fatemi un fischio.
Domanda finale: e nel giornalismo, quando la facciamo una rivoluzione tecnologica?
Leggendo quell’articolo di Repubblica, fermatevi un attimo anche ad apprezzare quanto sia digitalmente evoluto:
Quanto ci vorrebbe a pubblicare una versione online in cui Sentilo e CityOS siano link cliccabili, senza URL in parentesi? Niente. Invece trovi la “fotocopia” del cartaceo. Ti vien da pensare che forse hanno paura che l’Articolo 11 della Direttiva sul Copyright che tanti giornali hanno fortemente voluto gli si ritorca contro.
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