Quando ha senso il Commercio Equo e Solidale?
(questa è una sintesi aggiornata di alcune osservazioni da me fatte su una mailing list nel 2007. Le ripubblico in questa forma perché mi sembrano ancora attuali e mi interessa molto, ora più di allora, scambiare idee su questo argomento)
Il Commercio Equo e Solidale (CES), almeno in forme tipo “acquista queste magliette prodotte in India con cotone organico, da un’impresa che ha scelto di investire sui diritti dei lavoratori e delle comunità”, mi lascia perplesso.
Finora come CES io incontrato quasi esclusivamente esempi come quello: roba che NON mi serve e/o non mi piace affatto, indipendentemente da quanto costa e da chi, come e dove la produce. Soprammobili e capi d’abbigliamento di gusto diversissimo dal mio e comunque di magliette ne ho già troppe, dolciumi che non sono il massimo per la salute, altra roba che non mangio quasi mai, eccetera. Di questo tipo di CES (lo so che non è tutto così, ma è così la maggioranza dei casi che ho incontrato finora io!) faccio fatica a vedere il significato e il bisogno.
Mi sembra di vederci un po' troppo elemosina e assistenzialismo sotto altre forme: “OK, mi prendo questa roba per sentirmi IO tanto equo e solidale, o per umiliarvi meno quando dovete accettare i miei soldi per campare”. Come comprare accendini o calzini dal venditore al semaforo anche se hai già sette, o la vendita di dolci in parrocchia, dove per dare ai ragazzini l’illusione di autofinanziarsi le loro mamme ricomprano l’una i dolci fatti la sera prima dall’altra. Tra parentesi, non sono certo stato il primo a esprimere dubbi sul CES, vedi l’appello di qualche anno fa di Alex Zanotelli.
Personalmente, ridurre i consumi ed eliminare il superfluo viene prima ed è molto più importante del CES. Sì al CES, cioè a comprare direttamente da veri produttori in paesi in via di sviluppo, aggirando il più possibile multinazionali e altri intermediari e anche se i prodotti CES inquinano con il loro trasporto tanto quanto quelli non-CES, se arrivano dall’altro capo del mondo. Ma sì al CES solo quando si tratta di roba che serve VERAMENTE (ma VERAMENTE!) e che non è possibile produrre o reperire localmente in altro modo, nemmeno usata. Almeno in certi campi, di commercio altrettanto equo e solidale ma molto più necessario a ogni famiglia se ne può fare comunque “in loco”.
Quando scrissi per la prima volta queste mie perplessita qualcuno mi rispose: “e allora che facciamo? I duri e puri, lasciando i contadini del Sud del mondo nelle mani delle multinazionali? Non utilizziamo più cacao, caffè, banane, zucchero e compagnia bella?"
A me, più che essere da “duri e puri”, certe considerazioni sembravano, e sembrano, soltanto pragmatiche. Se posso permettermi di spendere solo pochi Euro al mese per aiutare il prossimo, è essenziale che capisca quali modi sono più efficaci. Personalmente, ho la sensazione che di questi tempi ai paesi in via di sviluppo (1) servano molto di più aiuti diretti e mirati per l’educazione.
Ho la sensazione che aiuti del genere vengano molto prima di certi acquisti CES nella lista degli aiuti che servono davvero e fanno la differenza. Ho l’impressione che i contadini del Sud del Mondo scoprirebbero comunque come sopravvivere dei loro campi anche senza il nostro aiuto, ma che arrivare completamente da soli a ospedali, scuole e altre infrastrutture primarie adeguate e sostenibili gli sarebbe molto più difficile senza supporto specializzato. Voi che ne pensate?
(1) anche a quelli attualmente in via di… non-sviluppo come l’Italia, certo, ma quello è un altro discorso.
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